Skip to content

Parlando di linfedema, moda e normalità con Alessia Zurlo

Alessia Zurlo - Foto concesse da Alessia Zurlo, elaborazione Il Radar
Alessia Zurlo - Foto concesse da Alessia Zurlo, elaborazione Il Radar

Attraverso le nostre interviste abbiamo deciso di approfondire la conoscenza del linfedema e l’impatto che ha sulla vita delle persone che ne soffrono. Per farlo abbiamo intervistato Alessia Zurlo giornalista e modella affetta da linfedema. Ospite in diverse trasmissioni delle reti Rai, Alessia è impegnata, tra le altre cose, nell’associazione Lymphido insieme ad altre persone affette da questa patologia e ne dirige il nascente magazine Lymphormazione. Abbiamo anche affrontato il tema della moda inclusiva approfondendo la conoscenza dell’agenzia Imperfetta Project della quale Alessia è una delle muse. Di seguito la nostra intervista ad Alessia Zurlo.

Alessia vorrei che raccontasse ai nostri lettori come e quando si è accorta di essere affetta da linfedema

Ero un’adolescente, avevo tra gli 11 e i 12 anni e mi sono accorta di un gonfiore anomalo all’inguine e ho iniziato a sottopormi alle prime visite dal pediatra il quale non si spiegava bene cosa potesse essere perché all’inizio supponeva fosse un’ernia. Una volta appurato che non lo fosse è cominciato un lungo pellegrinaggio da diversi specialisti, ciascuno dei quali dava una propria ipotesi di ciò che potesse essere. Questo periodo è durato 5 lunghi anni durante i quali il gonfiore si è esteso dall’inguine alla coscia. Si iniziava a notare il rigonfiamento della parte superiore della mia gamba, anche se era ancora, in realtà, poco visibile. Io me ne accorgevo dagli indumenti che indossavo perché magari togliendo i jeans, a fine giornata, trovavo su una gamba il segno delle cuciture che dall’altra parte non c’erano. Questo indicava che una delle due gambe era più costretta dell’altra. Dopo 5 anni finalmente mi viene fatta la diagnosi e mi parlano per la prima volta di linfedema primario. Una malattia degenerativa, invalidante, cronica e rara. Una serie di aggettivi poco rassicuranti. In più mi dissero che mi avrebbe accompagnata per tutta la vita. All’epoca non mi diedero molte indicazioni, ma solo di fare un bendaggio che avrei dovuto tenere per qualche giorno e poi ripeterlo. Inoltre mi dicevano che avrei dovuto indossare per sempre una contenzione elastica, una calza che mi prescrisse proprio questo specialista e che io iniziai a indossare all’età di 16 anni e che continuo a portare ancora oggi. Per me è diventata la mia seconda pelle.

Oggi esistono diversi specialisti che si occupano di questa patologia, ma fino a 20 anni fa si trattava di qualcosa di fondamentalmente sconosciuto, vuole dirci se lei ha percepito questa diffusione delle informazioni anche tra i medici?

Sì, 20 – 30 anni fa la conoscenza di questa patologia era pressoché inesistente. Se consideriamo che sono dovuta andare in giro da diversi specialisti per 5 anni e nessuno è stato in grado di individuare la patologia, già questo dovrebbe dare l’idea di quanta poca conoscenza ci fosse. Sicuramente oggi se ne parla di più e il linfedema è più conosciuto anche grazie alla sua forma secondaria che è molto più diffusa. Il linfedema primario è una malattia rara, adesso, ancora oggetto di molti studi genetici, mentre nella forma secondaria è più conosciuto, perché sono note le cause che lo provocano, ad es. il danno o l’asportazione dei linfonodi a seguito di tumori, interventi chirurgici, radioterapia, traumi o infezioni. In questi casi i medici sono già preparati a questa eventualità e alcuni, non tutti, ne parlano ai pazienti. Il linfedema oggi è più conosciuto rispetto a 20 o 30 anni fa, ma non ancora in maniera capillare. Ancora oggi, davanti a degli arti che sono nello stadio iniziale, è difficile avere una diagnosi così precisa a meno che non si capiti davanti ad uno specialista molto formato che riesce a riconoscerlo e prenderlo per tempo. La situazione purtroppo in Italia è ancora molto disomogenea sia per quanto riguarda la preparazione degli specialisti, e del personale sanitario, sia dei professionisti che possano essere in grado di gestire la patologia per tutto quello che è richiesto nella fase di approccio terapeutico. Ci sono alcune regioni che offrono personale formato, competente, preparato. Altre invece no. Alcune regioni offrono delle strutture del servizio pubblico che possono, in qualche maniera, prendere in carico il paziente e cercare di gestire la patologia. In altre regioni purtroppo i pazienti brancolano nel buio e sono un po’ abbandonati a sé stessi.

Dal punto di vista funzionale l’arto o gli arti che manifestano un linfedema hanno problemi o causano fastidi? Ad esempio l’abbiamo vista fare ginnastica, ci può dire se oltre al gonfiore si manifesta anche un dolore o perdita di forza?

Per quanto riguarda un arto con un linfedema, io parlo per la mia esperienza personale, sento la gamba più pesante e un po’ più rigida in alcune situazioni. Le variabili sono tantissime e sono più o meno prevedibili. Ad esempio so che durante la stagione estiva, quando c’è caldo, la mia gamba è più sofferente e il senso di pesantezza aumenta, la pelle è più sensibile e mantenere tutto il giorno una contenzione elastica strettissima sull’arto con linfedema genera delle situazioni di disagio perché la pelle si irrita più facilmente. Inoltre c’è una maggiore sudorazione e quindi ci sono sicuramente delle condizioni che aggravano questa sensazione di gonfiore e pesantezza che talvolta diventa dolore. Questo rende anche faticoso affrontare l’intera giornata. Per quanto riguarda, invece l’attività fisica, sempre in accordo con i professionisti che seguono il paziente, si possono concordare delle attività da fare in rapporto alle capacità e all’età del paziente. Molti studi correlano comunque un’attività fisica, una buona attività fisica, ad alcuni benefici sulla circolazione linfatica perché il movimento fa da pompa muscolare e aiuta il defluire della linfa. Le contrazioni muscolari aiutano questa circolazione. Quando faccio molta attività fisica, più o meno intensa – tendenzialmente cerco di evitare l’attività fisica intensa perché preferisco non appesantire troppo la gamba –a seguito dell’attività faccio un auto bendaggio e, in qualche maniera, cerco di ripristinare il gonfiore che dovesse essere aumentato. L’attività migliore che si possa pensare di fare, se le condizioni della pelle sono ottimali, senza ulcere o infezioni, è il nuoto perché con l’attività in acqua oltre a non avere un peso su quell’arto il movimento all’interno del fluido esercita una specie di massaggio. Io ho notato un grande sollievo dopo una nuotata in piscina o una lunga nuotata al mare. Non percepisco tanto una variazione di circonferenza. L’aspetto della gamba è, più o meno, sempre quello forse, talvolta, addirittura peggiorato, ma la sensazione positiva è proprio quella legata alla leggerezza di un arto che sembra essere più sciolto, più leggero più fresco. Concludendo, per quanto riguarda le sensazioni di fastidio legate al linfedema, le principali sono la pelle che tira, il senso di pesantezza e una minore capacità articolare dovuta anche alle dimensioni dell’arto che sono leggermente diverse dal controlaterale.

Una persona a me cara ha avuto un principio di linfedema localizzato alla caviglia. Le posso chiedere come si è sentita quando ha realizzato che il gonfiore non sarebbe passato?

Quando mi è stato detto che si trattava di una malattia cronica con la quale avrei dovuto convivere tutta la vita per me è stata un colpo durissimo. Avevo solo 16 anni. Stiamo parlando di una ragazzina nel pieno dell’adolescenza, nel pieno di una affermazione della propria identità che passa, a quella età, anche e soprattutto attraverso l’aspetto fisico. Un’età delicatissima nella quale il confronto con i pari, e il riconoscersi nel gruppo dei pari, ha un valore fondamentale. La diversità in questo caso diventa invece un discriminante. Sicuramente il fatto di sapere di avere qualcosa che non sarebbe mai passato e, che anzi, in prospettiva avrebbe anche potuto peggiorare, ha determinato una serie di domande, dubbi, insicurezze, ansie e preoccupazioni che chiaramente hanno preso moltissima parte dei miei pensieri e delle energie mie e dei miei familiari.

Le è mai capitato di essere vittima di discriminazioni da parte di qualcuno e come ha fatto, se è successo, a superare quei momenti?

Fortunatamente non mi è mai capitato di essere apertamente vittima di discriminazioni relative al mio aspetto fisico, però è anche vero che io, per tantissimi anni, ho utilizzato il 90% delle mie risorse per mascherare questa mia condizione. Dunque non la condividevo con gli altri in maniera esplicita a eccezione delle persone più fidate. Non mi sono trovata per moltissimi anni nelle situazioni in quali apertamente mi mostravo al pubblico. Probabilmente quando andavo in vacanza ed ero in spiaggia, quando proprio non riuscivo a trovarmi in situazioni di solitudine – non ho mai frequentato un’isola deserta – e cercavo posti che non fossero troppo affollati, li mi sono sentita io in difficoltà, ma non sono mai stata vittima apertamente di una qualche situazione di disagio. Quando mi è capitato che mi è stata fatta una domanda ho risposto e, forse, soddisfacendo quella curiosità si è stemperata un po’ quella sensazione di imbarazzo e disagio. Ho capito che, a volte, rispondere a una domanda nata dalla curiosità, soddisfare quella curiosità, mette un po’ in pace perché spesso la gente è solo curiosa e ha semplicemente bisogno di una risposta. Dandogliela si può chiudere la vicenda. Mi è capitato, invece, di parlare di questa mia patologia e trovare persone accoglienti, disposte all’ascolto e alla comprensione. Mi hanno fatto delle domande e hanno avuto dei riguardi e delle accortezze nei miei confronti. Quindi non si tratta di una vera discriminazione, ma rappresenta una grande difficoltà a cercare di gestire la condizione, la patologia e le terapie che richiede con una condizione lavorativa. Non si tratta di una vera e propria discriminazione, ma c’è un prezzo da pagare per il fatto di dover seguire, in maniera costante, un progetto terapeutico e, in qualche modo, questo impatta sia sul lavoro, sul rapporto con i colleghi e anche sulle ambizioni incidendo sulla possibilità di fare tutto quello che uno ha in testa e che, poi invece, deve essere necessariamente ridimensionato perché devi trovare un accordo con la vita pratica, la logistica e la necessità di sottoporsi a 2 o 3 terapie settimanali. Probabilmente questa stessa condizione mi ha discriminato, una discriminazione che non viene dall’esterno, ma che deriva dalla propria condizione che ti impone dei limiti.

Alessia Zurlo, Foto Alessia Zurlo, elaborazione Il Radar

Lei collabora a un progetto che si chiama Imperfetta Project. Leggendo la parola secondo i canoni della lingua inglese, sì evince che il messaggio è esattamente l’opposto dell’imperfetto. Ci vuole dire com’è nata la sua collaborazione a questo progetto e di che cosa si tratta?

La mia collaborazione con Imperfetta Project (si scrive con l’apostrofo quindi I’mPerfetta) e nasce circa un anno e mezzo fa. Quando ero ragazzina avevo un grande interesse per il mondo della moda e della fotografia e avevo iniziato a muovere qualche primo passo nelle agenzie di moda, salvo poi autocensurarmi man mano, che il linfedema progrediva e crescevano la mia insicurezze. A differenza di oggi i canoni richiesti 20 o 30 anni fa erano assolutamente restrittivi, o si era perfetti oppure non si era nulla. Non esistevano vie di mezzo. Per essere modelle bisognava avere determinate misure e tutta una serie di requisiti dai quali non si poteva assolutamente prescindere. Oggi questi requisiti sono un po’ più elastici e le cose sono un po’ cambiate, ma non completamente stravolte. Questo progetto che mi vede adesso impegnata con l’agenzia Imperfetta Project ha proprio questo alla base, cioè il sovvertire il canone di bellezza così come è sempre stato inteso. Non come un ideale di perfezione, nel quale poi difficilmente una donna, che posso essere io stessa, si possa identificare e riconoscere. I famosi canoni di perfezione qui sono completamente sovvertiti. Chiunque, uomo o donna, abbia una personalità, un mondo interiore e anche, perché no, una condizione che li rende diversi da altri ma unici, può e deve esprimere la propria bellezza che in questa agenzia è assolutamente valorizzata. Carlotta Giancane che è l’art director dell’agenzia Imperfetta Project ha deciso di avviare questo progetto, della prima agenzia italiana di modelle “imperfette” con l’idea di mettere insieme un gruppo di persone che avessero qualcosa di bello da esprimere nonostante una, e soprattutto per una, caratteristica che li rende unici, unici e assolutamente perfetti così come sono. Chi deve stabilire cosa è perfetto e cosa non lo è, cosa è bello e cosa non lo è? La ricchezza sta proprio nella diversità e nell’essere diversi perché questo ci rende unici e preziosi. Abbiamo tutti un valore e la condizione che ci caratterizza è parte di questo valore. Io sono stata scelta per questa mia caratteristica che mi rende diversa e unica, così come tutte le altre mie colleghe che fanno parte dell’Agenzia, le altre muse. L’agenzia chiama le proprie modelle muse proprio perché vogliono, e devono, rappresentare un’ispirazione per gli altri. Con la sua volontà di valorizzare la bellezza delle imperfezioni, Carlotta Giancane ha portato il linfedema, ufficialmente, per la prima volta, nel mondo della moda inclusiva con me. Attraverso Imperfetta Project il linfedema è entrato ufficialmente nel mondo della moda inclusiva quindi, si può dire che io sia la prima modella italiana con Il linfedema in seno a questa agenzia di moda inclusiva ed è davvero straordinaria e rivoluzionaria. C’è da dire che all’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, c’è più apertura alla diversità. Ecco perché. la realtà di imperfetta è veramente una mosca bianca nel panorama italiano. Si tratta di un progetto nuovo e rivoluzionario perché negli altri paesi, che sono più aperti alla diversità, è più facile vedere spot che utilizzano modelli diversi con disabilità o menomazioni, la sindrome di Down, un’amputazione o una sedia a rotelle. In Italia si fa ancora una certa resistenza, sfila qualche modella curvy, ma è difficile arrivare a gamba tesa sdoganando un modello o una modella che abbiano delle caratteristiche tanto diverse da quelle alle quali siamo abituate. C’è ancora tantissimo lavoro da fare e, sicuramente, questo progetto sta lavorando nella direzione giusta. Bisogna vedere poi come risponde il mercato, la richiesta e il mondo della moda stessa. Ci sarebbe da imparare molto dagli stranieri, da quello che si fa all’estero, però per adesso siamo riusciti a far entrare alcune caratteristiche fisiche dalla porta principale del mondo della moda. Vediamo per altre caratteristiche quanto tempo ci vorrà. Speriamo poco. Questo per parlare di inclusività a tutto tondo perché se la moda si definisce inclusiva è giusto che lo sia realmente senza distinzioni di serie A e serie B che sarebbe discriminatorio.

Una domanda un po’ più intima ha mai percepito mancanza di affetto o di stima da parte di qualcuno a causa della sua patologia?

No. Devo dire che mancanza d’affetto o stima da parte di qualcuno, per la mia patologia, non è mai accaduto. Forse sarò stata fortunata ma no. Come dicevo prima ho tenuto nascosto a lungo questo mio, questa mia sofferenza, ma quando ne parlavo e quando mi capitava di aprirmi ho sempre trovato persone delicate al mio fianco come interlocutori. Certamente nella sfera familiare, ma anche nei miei primi amori adolescenziali. Da questo punto di vista la mia patologia non ha mai creato distanza, ha creato sicuramente delle situazioni faticose perché, in prima persona, portarmi addosso questo dolore, portarmelo anche mentalmente, psicologicamente, sicuramente aveva delle ripercussioni nelle relazioni umane. Banalmente è chiaro che con me non si poteva fare tutto a cuor leggero come andare una domenica d’agosto al mare in una spiaggia sovraffollata. Quindi ero io che ponevo certi limiti, ma non è mai stato il contrario, non mi è mai mancato un affetto una certa considerazione del mio valore in ragione della mia condizione. Paradossalmente io stessa ho intaccato, per molti anni, la mia autostima pensando che la condizione del linfedema mi avesse tolto qualcosa del mio valore, cosa che poi, chiaramente, maturando e facendo tutto un lavoro profondo nel mio percorso di accettazione è cambiata notevolmente. Adesso ho un’alta considerazione di me che non significa essere presuntuosa, ma ho una considerazione di me perché conosco il mio percorso e so come ho percorso quella strada. La pesantezza dei miei passi, che man mano si sono fatti più consapevoli e leggeri. Sono orgogliosa di me e della donna che sono diventata, delle cose che sto facendo, di quello che posso dare e di come posso mettere la mia esperienza personale al servizio degli altri.

Io sono venuto a conoscenza della sua storia guardando casualmente un programma condotto da Caterina Balivo. Posso chiederle se ha dei progetti artistici per il futuro e se le va di accennarceli?

Ho moltissimi progetti creativi di comunicazione, ad ampio spettro. Qualcosa di più artistico lo sto facendo, ma non posso anticipare nulla. Sicuramente sono aperta a valutare tutte le possibilità e occasioni che mi si dovessero presentare. Ho idee molto precise sul chi sono e sulle scelte che ho fatto nella vita, su cosa posso o voglio fare e cosa invece no. Sono felice di poter valutare qualsiasi cosa e poi scegliere. Sicuramente in questo momento la richiesta da parte delle testate giornalistiche o delle emittenti televisive di condividere questa mia esperienza di vita e informare sulla patologia dando anche un messaggio positivo alle persone è, in questo momento, uno dei miei principali obiettivi e impegni. Di pari passo con l’impegno nella moda di cambiare il concetto di diversità come fonte di ricchezza e non come elemento stigmatizzante.

Ringraziamo Alessia Zurlo per il tempo che ci ha voluto dedicare e per l’impegno e la disponibilità che nella realizzazione di questa intervista.

Leggi anche Intervista a Stefano Andreotti

Articoli correlati

Seguici sui social

ADVERTISMENT

Recent Posts

ADVERTISMENT