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Il 9 marzo 2020 iniziava il lockdown per il Covid-19: cosa ci resta 5 anni dopo

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia il DPCM il 9 marzo 2020
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia il DPCM il 9 marzo 2020

Lunedì 9 marzo 2020 la storia dell’Italia cambiò per sempre. Nella serata il presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte andò in televisione a reti unificate per annunciare l’adozione di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Il provvedimento fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 62 a pagina 7 e 8 e conteneva disposizione per rendere tutta l’Italia “zona protetta”. Per chi come me ricorda quei momenti è facile percepire un brivido pensando a quello che stava accadendo in quegli istanti. La portata dell’evento era storica. All’epoca ero molto diverso da oggi, amante della storia, del diritto e dello studio in generale. Sentivo la gioia di vivere un momento irripetibile – per carità, ogni momento è irripetibile – ma quel giorno sentivo che la storia che avevo studiato sui libri, in quel preciso istante, la stavamo vivendo. Il paragone andò subito alla peste del 1347 e a quella del 1656: provvedimenti da parte dei governanti per chiudere in casa tutti i cittadini per evitare senza riuscirci, purtroppo allora come nel XXI secolo, il contagio di tutta la popolazione.

Lazzaro Spallanzani

A quel tempo mi fidavo delle procedure amministrative e pubblicitarie, infatti leggevo spessissimo la Gazzetta Ufficiale; avevo la consapevolezza di poter contare su quella che pensavo un’amministrazione sana e un governo attento – complice anche il fatto che in precedenza grazie a una attenta attività di intelligence l’Italia si era salvata dal terrorismo internazionale – potevano realizzare. A infondere in me ulteriore coraggio era la fiducia nella figura del primus inter pares, il presidente del consiglio e l’orgoglio di leggere una frase. Nei giorni precedenti alla chiusura una coppia di coniugi cinesi era stata ricoverata all’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma. I medici arrivavano da lontano, inquadrati dai cameraman che supportavano i giornalisti, con un passo deciso e costante, con i dispositivi di protezione individuale, per rendere conto all’opinione pubblica nazionale e internazionale di cosa stava accadendo. Apparivano come figure eroiche e sull’ingresso, laddove si parlava con la stampa, dominava una scritta, una frase che da sola, per chi aveva, ed ha, il sentimento di affetto verso la Patria, dice tutto “INMI Lazzaro Spallanzani”. Era una scritta che infondeva sicurezza e che, al pensiero, ancora oggi, mi mette i brividi. Chi ha presente altre frasi come “Nei secoli fedele” può comprendere come la percezione psicologica fosse tale da trasmettermi l’impressione, la certezza, che tutto sarebbe andato bene e con un sforzo collettivo enorme avremmo evitato anche questa buca. Se mi fossi vantato delle mie certezze derivanti dal mio grado di fiducia, due mesi dopo avrei potuto essere smentito.

Il 9 marzo 2020 ho scoperto quanto è bella la compagnia della speranza

Ma il 9 marzo 2020 conobbi la bellezza di avere paura cercando di dare sicurezza alle persone a cui voglio bene. Mi trovavo nella casa di Ottaviano nella quale purtroppo non vivo più, insieme ai miei genitori. Mia mamma stessa, destinataria di tanti dialoghi in quei giorni e in tutti gli anni della mia vita, non c’è più vittima di quel virus. Ma la bellezza di dare sicurezza a chi ti è vicino e chi invece è altrove è qualcosa che non dimenticherò. Probabilmente tra il 2020 e il 2021 ho vissuto il periodo più bello della mia vita nonostante tutto quello che poi è accaduto. In quei giorni ebbi modo di collaborare con un giornale online ildigitale.it e grazie a questa collaborazione sono poi diventato giornalista.

Sempre in quei giorni stavo studiando per conseguire una seconda laurea in Scienze Politiche, che poi effettivamente ho conseguito con lode. Avevo modo, quasi ogni giorno, di scrivere un articolo per informare ma anche per dare speranza ai lettori, proposito che condividevo con la direttrice del giornale. Sono stati mesi di impegno, di successi. Ogni giorno la mia mente trovava il modo di dare e fare di più, non importava quanto fosse grande il problema, quanto impegno fosse richiesto, quanta paura avessero gli altri, io avrei sempre trovato il modo di poter fare qualcosa perché amavo l’idea di aiutarli a pensare che c’erano le nuvole ma sopra c’era sempre il sole. Ho conosciuto persone bellissime che facevano, fanno e faranno parte della mia vita: amiche e amici all’università; la direttrice della testata con la quale condividevamo, seppur a distanza, la necessità di sperare e credere in un futuro diverso; le mie amiche e amici storici che non mi fecero mancare il loro sostegno e la loro “presenza” anche in quei giorni; i docenti che mano a mano conoscevo, prima da remoto e in seguito di persona. Ma anche altre persone con le quali intrattenevo dialoghi sui social, al solo scopo di trasmettere sicurezza nel rispetto della gravità del momento.

La Speranza

In tutto questo non mancava il conteggio dei morti, degli ammalati e il consueto briefing quotidiano della protezione civile. Tutti i giorni circa alle 18 io e i miei genitori ci riunivamo in quella grande cucina ad ambiente aperto dove c’era anche il televisore e tra una tazza di caffè decaffeinato e una camomilla seguivamo la diffusione dei dati da parte dei funzionari della protezione civile. Lo facemmo anche il 27 marzo quando Papa Francesco volle pregare per la fine della pandemia e io ebbi modo di sentire dentro di me il brivido che solo la storia può lasciare quando con la leggerezza di un soffio di vento riesce a scrivere sul marmo rendendo indelebili gli eventi. Quel giorno potei scrivere un articolo su quanto stava accadendo, parlando agli altri ma mettendo a nudo tutti i pensieri della mia anima.

Lunedì 9 marzo 2020: Fai rumore qui

C’era paura ma unita alla consapevolezza che Fai Rumore di Diodato che aveva appena vinto il 70° Festival di Sanremo, non sarebbe stato l’ultimo rumore di una bella canzone, ma mai come in quei giorni appariva l’unica cosa sensata, la canzone più indovinata della storia del festival. I balconi pieni di bandiere, il canto dell’inno d’Italia, l’intonazione di Fai Rumore mi sono entrati dentro al cuore e ci rimarranno per sempre. Non so dire quanto ho voluto e quanto voglio tuttora bene a quelle persone che hanno condiviso con me quei momenti aiutandomi a trovare la luce nel momento più buio della storia d’Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Covid-19

Ma al conteggio dei morti, degli ammalati e dei guariti, si sommavano poi i problemi del sistema sanitario, la necessità di fronteggiare un virus nuovo e la poca esperienza, in generale, nella cura delle polmoniti virali. Circa un anno dopo, il 24 aprile 2021 anche la mia mamma mi avrebbe lasciato a causa di quel virus. Dentro me ho lei così come conservo quei momenti, nel mio cuore, nella mia anima. Ma non posso negare che in quei giorni di isolamento non abbiamo vissuto la solitudine e che fino all’ultimo abbiamo visto tutto il bene che c’era in ogni momento. Non ne siamo usciti migliori perché gli esseri umani hanno la tendenza, forse naturale, a commettere gli stessi errori numerose volte, soprattutto quado si tratta di un corpo sociale e non di una singola persona. Ma io ho imparato ad apprezzare le meraviglie della vita che anche nell’isolamento possono farti compagnia e mostrarti un mondo migliore.

“Io, tu e Giuseppe Conte”

Non siamo migliorati. Forse siamo peggiorati. Io stesso non sono più quello di 5 anni fa quando avevo certezze, propositi e opinioni salde. Se Archimede poteva dire datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo, io, in quei giorni avrei detto ditemi di cosa avete paura e vi dimostrerò che c’è una speranza. Ero sicuro di questo e di quello che potevo fare io per dimostrarlo. Nel settembre del 2022 parlando con la direttrice del giornale, ricordando quei giorni, mi disse “Ricordi quando durante il lockdown del 2020 a mandare avanti il giornale c’eravamo solo io tu e Giuseppe Conte?”. Fu per me un grande motivo di gioia, nonostante tutto ciò che era accaduto, nonostante dal nulla fosse mancata mia mamma. Rimpiango la duttilità, la capacità e la velocità di pensiero che avevo in quei mesi. Non perché non l’abbia più ma perché mi veniva naturale, invece oggi devo metterci un certo impegno. Forse quello che mi manca non è la capacità ma la fiducia di quelle persone che alimentava la fiamma del mio ingegno. Mi manca il brivido che sentivo quando la storia mi entrava dentro ma vivo con la consapevolezza di essere riuscito nel mio piccolo a dare almeno un istante di speranza a tutte le persone a cui volevo e voglio bene e a tutti coloro che leggevano i miei articoli e i miei interventi. La stessa consapevolezza di essere cresciuto, di non essere più lo stesso di allora, ma di aver qualcosa in più, di esperienza di conoscenza, di valori. Infine la certezza che finché avrò vita mai dimenticherò quei momenti e mai smetterò di dire a tutte le donne e gli uomini che hanno condiviso con me quel periodo che volevo, voglio e vorrò bene a ciascuno di loro e sempre sarò grato per avermi dato la forza e la fiducia per vivere quei momenti e superarli con il proposito di avere e dare speranza. Non dimenticate quel giorno. Non dimenticate chi eravamo e chi siamo.

Grazie.

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