Il tema del dibattito politico verte costantemente verso lo scontro tra maggioranza e opposizione, circa la separazione delle carriere dei magistrati. La nostra giustizia per funzionare meglio nell’interesse delle persone offese dai reati, ha bisogno di attuare pienamente la sua funzione rieducativa prevista in Costituzione. Abbiamo parlato di queste e altre tematiche con l’avvocato Marco Muscariello neo presidente della Camera Penale di Napoli.
Sulla separazione delle carriere alcuni fanno notare che è cosa buona a cominciare dal fatto che tra avvocati e giudici ci si dà a del lei, cosa che invece non accade tra giudice e pubblico ministero. Lei crede che la separazione sia una cosa giusta che farebbe funzionare meglio la giustizia?
La separazione delle carriere è uno strumento, non un fine per attuare un principio costituzionale: il giusto processo con giudice terzo e imparziale in condizioni di parità tra accusa e difesa. Avere una carriera comune da parte di giudici e pubblici ministeri potrebbe portare anche a rapporti di conoscenza molto stretti – com’è normale che sia – oppure a una condivisione della formazione. Questo potrebbe determinare un sentire comune da parte di soggetti con funzioni diverse. Ma questo è un tema che nasce diversi anni fa con un’altra separazione.
Quale?
La non commistione delle funzioni giudicante e requirente.
Ci spieghi meglio.
Se una persona che ha svolto per tanti anni il ruolo di requirente passa dal lato giudicante avrà assolutamente, in modo fisiologico e in buona fede, una certa predisposizione a comprendere le tesi dei colleghi con i quali ha condiviso la sua esperienza formativa e lavorativa. Oggi le cose sono diverse perché tanti provvedimenti legislativi hanno reso più difficile e raro il passaggio da una funzione all’altra ma la separazione delle carriere andrebbe nella direzione di massimizzare la garanzia senza avere timori di altro tipo.
Spesso si dice che potrebbero esserci rischi per l’autonomia della magistratura.
I timori dell’Associazione Nazionale Magistrati sono proprio questi, temono che questo sia il prodromo della sottomissione del Pubblico Ministero all’Esecutivo oppure di una radicalizzazione dell’ufficio del pubblico ministero che poi verrà reso autonomo rispetto al corpo della magistratura giudicante. Ma questo è un rischio che noi avvocati non abbiamo alcun interesse a correre. Anzi, siamo i primi a volere la totale Indipendenza, non soltanto della magistratura giudicante, ma anche di quella requirente.
A proposito del giusto processo codificato dall’articolo 111 della Costituzione, c’è un passaggio che parla della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. Molti, con frettolosità confondono l’accusa con la prova della colpevolezza cioè confondono l’accusa con la sentenza.
È un problema culturale dall’epoca di Tangentopoli. Da allora in poi l’inevitabile risalto che gli imputati hanno avuto sui media. La misura cautelare, avendo la necessità di essere un atto a sorpresa ha un grandissimo risalto e viene in qualche modo pubblicizzata, talvolta per eccessiva fretta dei media, come una prova di colpevolezza. Questo percorso che è in contrasto totale con un altro fondamentale principio della nostra Costituzione che è la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Da questo punto di vista lo scarto culturale, che noi ci auguriamo possa essere colmato dall’opinione pubblica, è proprio quello di comprendere la provvisorietà della formulazione di un’accusa che ha bisogno di una convalida secondo il percorso processuale. Solo in quella sede si potrà veramente comprendere la veridicità delle prove.
A questo proposito, lei pensa che la stampa non dicendo di meno ma dicendo meglio potrebbe avere un ruolo?
Certo. La stampa ha un ruolo determinante perché spiegando la provvisorietà di una ricostruzione si avrà un modo diverso di recepire la notizia. Il fatto, sarà visto come qualcosa che non costituisce la prova di alcun reato ma soltanto l’esistenza di un processo. La notizia dovrebbe vertere sull’esistenza dell’indagine ma non sempre la stampa riesce ad avere questo doveroso equilibrio. A volte è più accattivante una notizia particolarmente “aggressiva” rispetto a una prudente. Spesso ad esempio, gli esiti dei processi, complice anche il fatto che arrivano molto tempo dopo, non hanno la stessa risonanza mediatica.
Si era discusso di introdurre una giornata per commemorare le vittime degli errori giudiziari. Lei cosa ne pensa?
Bisogna comprendere che il processo è finalizzato all’accertamento del reato e quando accerta che il reato non è stato commesso non necessariamente significa che ci sia stato un errore giudiziario. Il problema nasce quando l’errore di tipo patologico. I casi più eclatanti sono stati quelli nei quali gli operatori del processo non hanno avuto la forza di comprendere l’errore iniziale perseverando nel portare avanti delle tesi che si sono rivelate errate. C’è stato il caso Tortora ma se ne possono citare tanti. Sarebbe opportuno ricordare questi errori in maniera formale e cadenzata perché si tratta di un problema al quale possono andare incontro tutti i cittadini. Questo favorirebbe la sensibilizzazione e il recepimento, da parte dell’opinione pubblica, di provvedimenti giudiziari che a volte sono più garantisti. La giustizia è gestita dagli uomini ed è fallibile e che va amministrata con estrema prudenza. Una giornata di sensibilizzazione non vuole essere contro la magistratura ma contribuirebbe a formare una coscienza collettiva più matura rispetto a quella alla quale si rivolge spesso alla politica quando fa dei provvedimenti emergenziali.
La pena deve avere valore rieducativo come prescrive la nostra Costituzione. Lei pensa che ci sia ancora da lavorare in questo senso?
La finalità nobile della pena è l’unica esplicitamente indicata in Costituzione. Nella prassi applicativa possiamo riscontrare, rispetto alla tutela della salute dei detenuti e della possibilità di partecipazione all’opera di rieducazione, che tantissime delle attività previste come strumenti per favorire la rieducazione dell’imputato-detenuto e del condannato sono strumenti largamente inattuati.
Perché accade questo?
Ci sono carenze di organici e di strutture e una generale, riteniamo noi avvocati, disattenzione rispetto a questa tematica sia da parte della politica che dall’amministrazione. Queste sono problematiche esistenti e attuali che sono ampiamente ed evidentemente denunciate dal numero costante e drammatico dei suicidi nelle carceri. Dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari c’è anche una ricollocazione inattuata dei detenuti che soffrono di queste patologie, perché le strutture che dovrebbero ospitarli non sono state realizzate se non in pochissime eccezioni.
Cosa potere fare come avvocati in questo senso?
L’Unione delle Camere Penali ha indetto varie manifestazioni, anche aperte alla cittadinanza, e tra le quali la maratona oratoria di alcuni mesi fa. Purtroppo non c’è stata grandissima partecipazione da parte del pubblico. Bisogna far comprendere all’opinione pubblica che il detenuto non è un soggetto da abbandonare gettando la chiave – messaggio che mediaticamente passa spesso – ma è un soggetto da recuperare alla società.
Ma questo come può avvenire?
Consideri che tra tutti gli strumenti rieducativi, quelli che fungono da alternativa al carcere, secondo un’analisi oggettiva e non un’interpretazione parziale, hanno prodotto un bassissimo tasso di recidiva a differenza di coloro che hanno scontato la gran parte della pena in carcere. Ciò dimostra che la rieducazione comporta l’effetto collettivo per l’intera collettività. Sicuramente c’è tanto da lavorare in questo senso.
Come intende agire nel biennio nel quale lei dirigerà la camera penale napoletana?
Abbiamo tematiche di natura nazionale nelle quali saremo assolutamente impegnati a fianco dell’Unione Nazionale delle Camere Penali. La discussione attualmente in corso sulle riforme ci vedrà sempre al fianco dell’Unione perché condividiamo le stesse battaglie. Una tra tutte, ad esempio, quella sull’attuale DDL sicurezza che colpisce in maniera illogica e indiscriminata delle manifestazioni di dissenso con la minaccia di carcere. Più pene e maggiore severità senza andare alla ricerca di quelle che sono le cause di questi disagi sociali. Allo stesso modo, seguiremo il percorso parlamentare sulla separazione delle carriere, ma abbiamo anche delle tematiche di natura locale rispetto a un tribunale importante come Napoli.
Ce ne può dire qualcuna più in dettaglio?
Si tratta di tematiche che attengono un po’ alla marginalizzazione della figura del difensore rispetto al tribunale, alle aule di giustizia, alle cancellerie e agli uffici. Il superamento delle esigenze di salute, legittime attraverso gli strumenti di prevenzione dell’epoca Covid, adesso comportano una difficoltà di recupero di questo spazio del difensore nell’ambito anche dalla struttura del tribunale. Una migliore interlocuzione, anche con i magistrati, consentirebbe di evitare molti processi che nell’assenza del dialogo si fanno inutilmente e portano a un esito infausto per l’accusa. Si tratta di processi che potrebbero tranquillamente essere evitati se ci fosse maggiore dialogo e interlocuzione tra le parti.
Vi sono anche tematiche che attengono al passaggio al processo telematico. Un percorso importante che conta la difficoltà di adeguamento delle nuove norme rispetto agli strumenti operativi, primo fra tutti il portale telematico sul quale vengono depositati gli atti processuali. Sono problematiche che interessano la vita quotidiana degli avvocati ma anche quella dei cittadini che si rivolgono a loro.
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