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Intervista all’attrice Ira Fronten

Ira Fronten
Ira Fronten

Il Radar ha intervistato una protagonista del mondo dello spettacolo, in particolare del teatro e della fiction, l’attrice Ira Fronten. Abbiamo approfondito temi come l’integrazione e la differenza di genere.

Ira sei fondatrice di Italian Black Movies Award, un premio destinato agli attori italiani di discendenza africana. Raccontaci come è nata questa idea?

Si tratta di un premio che riconosce e valorizza figure diverse che lavorano nel mondo dell’audio visivo in Italia. Un modo per dire che esistono artiste e artisti preparati che vivono in Italia e che non c’è bisogno di cercarli all’estero come era di moda cinque anni fa. Si tratta di una categoria di lavoratori che difficilmente sarebbero stati premiati, in Italia, per il loro lavoro prima dell’istituzione di questo premio. Spesso i co-protagonisti di una serie TV non vengono menzionati neppure nei comunicati stampa che parlano di quel prodotto cinematografico. Quindi ho pensato che servisse un giusto riconoscimento. Per i primi due anni l’ho finanziato direttamente io, poi 7607 e la Roma Lazio Film Commission mi hanno supportato.

Dove si trova la sede del Festival?

È ospitato ogni dal Roma Africa Film Festival alla Casa del Cinema a luglio.

Hai recitato in tantissime fiction, Don Matteo, A un passo dal cielo, È arrivata la felicità, fiction nella quale hai interpretato il ruolo di una oncologa, ma i tuoi primi passi nel mondo dello spettacolo a quando risalgono?

Ho iniziato in Venezuela facendo la comparsa nelle telenovele, poi mi sono detta che non mi piaceva fare la comparsa, ma volevo ruoli più importanti. Mi sono trasferita in Argentina e ho studiato teatro. Nel 1998 ho girato il mio primo film con un premio Oscar spagnolo Guerrero, poi mi sono trasferita in Colombia dove ho lavorato in diverse telenovele e ho fatto la presentatrice televisiva, in tutto il continente latino americano. Avevo un programma dedicato ai sigari che era seguito da una media di 30 milioni di telespettatori a puntata ed era diffuso in tutto il sud e centro America fino a Miami. Poi mi sono trasferita in Italia perché il mio sogno era di lavorare nel cinema italiano.

Nonostante questo non hai ancora la cittadinanza italiana, giusto?

In Italia la legge funziona, lo Stato cerca di tutelare i cittadini come può, ma bisogna tenere conto che ogni caso è diverso e soprattutto è un caso a sé. Sono stata sposata con un italiano, avevo un lavoro e guadagnavo abbastanza bene, oltre ad avere una notorietà televisiva già in Sud America. Avevo iniziato la mia pratica di cittadinanza. Andando in municipio ho poi scoperto che il mio ex marito mi aveva cancellato dall’anagrafe. Come ha fatto non so. Con i consigli degli avvocati ho cercato di recuperare la domanda che mi era stata rifiutata. Alla fine è stata comunque respinta. In Italia purtroppo, molto spesso, si pensa che gli immigrati siano solo coloro che arrivano con il barcone. Esistono tanti tipi di immigrati. Confesso che ho perso un po’ la fiducia perché avrei potuto prendere la cittadinanza già l’anno scorso. Vivo qui, mi fa piacere parlare con gli amici anche all’estero e dire che vivo in Italia perché, in un certo senso, rappresento l’Italia. Sono tre anni che sto correndo dietro a questa pratica di cittadinanza. A causa del Covid non ho lavorato per alcuni anni e questo mi ha fatto perdere altro tempo. Tuttavia se c’era un decreto che chiudeva i teatri non potevo prendere a pugni il direttore del teatro per chiedergli di lavorare ugualmente.

Pensi che il tuo colore della pelle abbia in qualche modo influito sulla tua carriera cinematografica?

Sì, ogni storia è uno stereotipo. Veniamo da un mondo mediatico molto “colonialista”. Ad esempio la presentazione di persone di etnie diverse sia native o, come me, di etnie nere, non è molto comune in alcuni paesi compresa l’Italia. Questo influisce perché di solito i casting non danno mai un feedback ma la mia manager ha ricevuto spesso dei feedback e nonostante fossero di apprezzamento, per la verità, poi non venivo scelta. Altre volte mi arrivano delle sceneggiature scritte in un italiano stentato. Questo mi offende perché pensano che essendo di colore, anch’io debba parlare necessariamente in modo stereotipato con il quale di solito si sentono parlare gli stranieri. Di questa cosa ne ho parlato al regista e ho detto che avrei parlato l’italiano come lo conoscevo, non c’era bisogno di parlarlo male perché in ogni caso si sarebbe capito che non sono di madrelingua italiana. La sera prima del provino stavo cercando un dizionario di italiano ma non l’ho trovato e ne ho creato uno con dei piccoli fogliettini di carta. Quando questo personaggio doveva pronunciare male qualche parola, io prendevo questo finto dizionario, leggevo la parola e la pronunciavo bene. Lo stereotipo che la straniera deve apparire in televisione e deve parlare per forza male, oppure deve essere un personaggio negativo, non penso che vada bene. Gli stranieri studiano, lavorano, sono persone preparate.

Però noto l’inflessione romanesca.

In realtà sono romana nelle viscere. Quanto sono presa dalla passione mi viene fuori di parlare in dialetto romano.

Il ruolo che hai avuto in è arrivata la felicità ha rotto questo stereotipo della donna di colore che deve essere necessariamente moglie di uno spacciatore o deve violare la legge. Hai interpretato una professionista, una oncologa. 

I due protagonisti principali Claudia Pandolfi e Claudio Santamaria venivano da me a cercare dei pareri. Si trattava di un ruolo piccolo ma simpatico. In quella serie c’è stato qualcuno che ha dato normalità a ciò che vediamo ogni giorno.

Il 14 aprile hai vinto il premio come miglior attrice nella sezione “corti commedia” con il cortometraggio Ignoti e ne hai girato anche tanti altri come Love Same in Abruzzo.

I cortometraggi hanno un circuito un po’ diverso dal cinema. Ce ne sono alcuni che vanno su Rai Cinema, ma per adesso non l’abbiamo ancora proposto perché, di solito, quando entri in quel circuito devi cedere i diritti per un po’ e, durante quel periodo, non puoi portare il tuo lavoro all’estero. Per questo motivo, per adesso, non ci siamo ancora avvicinati a quell’ambiente. Diciamo che in buona parte si diffondono via web e tramite vari festival come, ad esempio, il Cortinametraggio. Lo stiamo proponendo anche ad altri festival grazie a Premiere Film, la nostra casa di distribuzione che si occupa proprio di cortometraggi.

Hai un curriculum davvero vasto che spazia dal teatro, al cinema fino alla collaborazione in un film di Ridley Scott.

Sì, quando mi hanno dato il provino era il periodo del primo lockdown e, quando ho aperto il PDF del copione, vedendo il mio nome mi sono emozionata. Non mi era mai arrivato un provino con il mio nome nella pagina, inoltre quando ho visto che ci sarebbe stata Lady Gaga e che il regista era Ridley Scott, avevo pensato che non sarei mai stata scritturata. Nel mio cuore speravo di vincere, ma pensavo di non farcela. È stata un’esperienza bellissima e ho donato anche una sciarpa, fatta con il telaio a mano, a Lady Gaga. Il regista Ridley Scott poi mi ha fatto i complimenti per ben tre volte. Quel giorno sono tornata a casa piangendo e mi sono ricordata di mio padre, che prima di passare a miglior vita, mi aveva detto che avrebbe voluto vedermi a Hollywood e che era contento di me. In quel caso Hollywood è venuto a casa mia perché abbiamo girato a Roma. È stato davvero un upgrade della mia carriera.

Quali sono gli scopi dell’associazione Amleta? Abbiamo visto che si occupa di una tematica simile a quella che in America è stata ribattezzata MeToo e, qualche volta, ha fatto anche qualche vittima illustre come Henry Weienstein, vicenda giudiziaria che appare ancora non essere completamente definita. È davvero così frequente nel mondo del cinema questo tema degli abusi? Non è possibile che in qualche caso, anche brave persone vengano imprudentemente additate come molestatori di attrici?

Amleta è nata durante il lockdown e io sono una delle 27 cofondatrici. In Italia non c’era un’associazione che accedesse i riflettori su pratiche passate come normali che in realtà non sono normali. In modo particolare sulle scuole di teatro, sui provini, sui set c’erano numerosi abusi e, in alcuni casi, anche stupri. Il tutto passato per normale. Ma non si tratta dell’unica cosa che fa Amleta. Ci occupiamo anche di gender gap e della mappatura dell’occupazione femminile al teatro. È veramente allarmante perché parliamo di teatri che lavorano con soldi pubblici. Abbiamo un 70% di uomini contro circa il 30% di donne. Abbiamo anche un osservatorio, grazie al quale le vittime di abuso possono denunciare, anche anonimamente, ciò che succede. Quando arriva una mail di denuncia, questa non viene letta dalle 27 socie, ma dalla presidente e da un’altra persona. Abbiamo anche il supporto di Differenza Donna che è l’associazione che si occupa del telefono rosa in Italia. Amleta ha contribuito a risvegliare il MeToo italiano. Purtroppo il sistema italiano, in alcuni casi, è eccessivamente garantista e tende a proteggere chi commette i reati, piuttosto che tutelare le vittime. Al momento non conosco casi di persone per bene che sono state erroneamente denunciate e condannate, ma non escludo che potrebbe anche capitare. A volte anche lei donne possono commettere reati, non solo gli uomini. Quindi ci potrebbe essere una notizia falsa passata per vera ma si tratterebbe di un caso molto raro.

Tu sei venezuelana e il Venezuela è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio ma per tanti anni è stato inviso agli Stati Uniti e a molti paesi occidentali a causa della sua guida politica, prima Ugo Chavez e poi Maduro. Posso chiederti se questa distanza politica tra il tuo paese e il mondo occidentale ha influito sulla tua carriera e sul tuo passaggio dal Venezuela agli altri paesi?

Ho lasciato il Venezuela prima che arrivasse Chavez, ma un vero e proprio pregiudizio a causa della distanza politica non l’ho mai percepito anzi, da questo punto di vista ho percepito molta solidarietà. Una cosa che mi ha dato fastidio era la morbosità. Durante il momento più grave della crisi in Venezuela, se raccontavo di essere venezuelana molti mi dicevano “ve la state passando male in questo periodo vero?” oppure “scarseggiano i generi alimentari vero?”. Penso che iniziare una conversazione in questo modo, ti metta in una condizione di tristezza e svantaggio psicologico. Ecco, forse mi sarei aspettata una maggiore solidarietà anche in funzione del fatto che ci sono tantissimi italiani emigrati in Venezuela.

Ringraziamo Ira Fronten per la disponibilità e per aver accettato con rapidità ed entusiasmo di parlare con noi del Radar.

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